Per mano
Essere un operatore sociale a volte ti salva. Da tante cose. Ti costringe a guardare oltre. Oltre ciò che vedi ed oltre ciò che e chi incontri ma, soprattutto, oltre ciò che percepisci. Ti obbliga a confrontarti e relazionarti anche con le persone e le emozioni più aberranti. Se dovessi o potessi semplicemente fermarmi a quel che sento, non lavorerei più. Così come a molte altre persone, mi è stata regalata l’ambivalente opportunità di guardare oltre, di essere chirurgica e lontana da qualsiasi pregiudizio o preconcetto nel modo di osservare ed ascoltare un fenomeno, seppur sconvolgente e terribile.
Sono pochi fortunatamente “i casi di vita” che riescono a lasciarmi l’amaro nel cuore, ma accade. Soprattutto quando la vittima è un bambino: vittima di maltrattamento, violenza fisica, violenza psicologica, violenza assistita, per mano della madre o per mano del padre, infanticidio. Forse però è utile familiarizzare con il concetto di vittima. Perché la vittima, oltre al cucciolo cui viene negato e strappato il futuro (come se fosse una decisione rispetto alla quale si ha potere), è anche chi resta. Resta chi ha ucciso, restano i suoi genitori, restano il suo legale, i suoi compagni di cella (quando cella sia), restano gli amici, gli altri, i cittadini di un paese. Resta il lungo addio di chi sopravvive, suo malgrado. Perché non è una scelta. È il paradosso infinito della vita. La vita che impenitente bussa alla porta e ricorda a chi resta che qualcosa è successo, qualcosa con cui fare i conti o da cui nascondersi, scappare e da dimenticare.
La maggior parte degli infanticidi che hanno come vittima bambini al di sotto dei sei anni, avviene per mano della madre e le vittime preferenziali sembrano essere i figli maschi. Provo a riflettere e a concentrarmi: per mano della madre. La mano della madre. Mano che per la prima volta sulla Terra accoglie. Mano che accarezza e che consola. Mano che toglie ma difficilmente lo fa da sola. Talvolta lo fa con un coltello, talvolta con delle fascette di plastica, talvolta con delle forbici, talvolta con del nastro adesivo. Mai da sola. I casi di cronaca in Italia sono così numerosi da far dubitare che si parli di madri. Ed infatti, prima che di madri, si parla di donne. Di donne, di mogli, di conviventi, di lavoratrici, di casalinghe, che poi ad un certo punto diventano mamme o madri. Perché la maternità è un’arma a doppio taglio (perdonate l’infelice gioco di parole…). Ad esser mamma si impara piano piano ed alle volte (purtroppo sempre più spesso), non ci si riesce. Non è la maternità ad essere innata e naturale. Per natura alla donna è stata regalata la capacità di contenere, di farsi culla, di farsi nascita. Sono due concetti diversi, che nel pensiero collettivo si fondono e confondono fino a rendere un’unica cosa l’essere mamma e l’essere madre. Se dico “mamma” trasmetto vicinanza mentre se dico “madre” già qualcosina cambia. Magari in modo lieve, magari anche solo inconsciamente ma cambia. Per questa ragione se una persona durante un colloquio mi parla di sua “mamma”, mi rivolgerò a lei con il termine “mamma” e, se invece mi dirà “madre”, mi rivolgerò a lei con il termine “madre” ed approfondirò. Pensiamoci: quando siamo arrabbiati spesso usiamo il termine “madre”, mentre normalmente diciamo “mamma”. È una sfumatura che in questa riflessione vi porto e vi lascio. La differenza tra l’essere un cerchio o solo un punto.
Ci sono donne che riescono a rinascere mamme ed altre che, in modo inspiegabile ed altrettanto naturale, diventano e si ritrovano madri. Donne che faticano e faticheranno a riconoscersi e ad apprezzarsi, così come faticano e faticheranno a riconoscere ed apprezzare il cucciolo messo al mondo ed il bambino che diventerà. Avviene anche in natura. La differenza tra l’essere umano e l’animale però sta proprio in questo: nella capacità di leggere questa difficoltà, di camminarle a fianco senza odiarla, senza respingerla, senza negarla, senza ripudiarla soltanto perché sembra impossibile e sembra innaturale. La donna talvolta non diventa mamma e non riesce neppure più a ritrovarsi nella donna che è sempre stata. Forse resta in un limbo da cui non c’è uscita. Forse solo in quel togliere la vita – che avvenga per premeditazione, “raptus”, psicopatologia, depressione, vendetta, egoismo, odio o qualsiasi altra ragione – in quel folle momento, prende coscienza di non poter mai più tornare “uno”, perché anche se non se lo sentiva o se non se lo vedeva, era “due”. Forse soltanto all’estremo è la prima volta che si riconosce. Allora inizia il secondo tempo: il chiamare i soccorsi, il tentativo di togliersi la vita, il tentativo di manipolare la realtà e di riappropriarsi di se. Un sé oramai svuotato, di senso e di contenuto. Finisce così qualsiasi magia che avrebbe dovuto creare un legame, un futuro.
In molte culture considerate “primitive”, la nascita e tutto ciò che ne consegue e che può definirsi accudimento, è compito della comunità, del villaggio, non compito esclusivo della genitrice. In molte famiglie d’Italia esiste ancora l’abitudine di spostarsi a casa della nuova famiglia appena nasce il cucciolo per sollevare la mamma (donna e prima ancora figlia-diventata mamma) ed affiancarla, sostenerla, permetterle di rinascere. Ed in molte famiglie, il compagno, marito, uomo, fa la medesima cosa pur non avendo familiari a supporto. Permettendo alla donna di trovarsi, di scoprirsi pian piano in questa nuova veste, in questa nuova pelle, in questa nuova forma, in questa nuova vita a due cuori e con questi nuovi occhi, che non sono più due ma diventano irrimediabilmente quattro. Una mamma appena nata dovrebbe stare “sola” il meno possibile, proprio perché non sarà mai più sola, in nulla: nei gesti e nei pensieri, presenti e futuri.
Quindi la mia riflessione porta qui: cosa avremmo potuto fare per questo cucciolo, per questa donna, per aiutarla a diventare sempre più una mamma? Cosa avremmo potuto fare per la sua famiglia? Affinare i sensi. Leggerne i sorrisi e soprattutto la stanchezza. Guardare davvero. Ogni comunità dovrebbe interrogarsi su come prevenire, su come essere vicini alle “famiglie appena nate”, alle mamme ed ai papà, ai cuccioli, ai nonni, a chiunque faccia parte di una famiglia. Bisognerebbe creare iniziative di paese, gruppi di vicinato e gruppi di incontro per conoscersi, stare insieme anche con i cuccioli. Stare insieme nella maternità e nella genitorialità. Viverla e scoprirla assieme, parlandone, giocando, divertendosi, supportandosi. La vicinanza fa la differenza. L’insieme fa la differenza. E quando non la fa, comunque può farla in piccolo. Un’altra priorità sarebbe essere informati su quali sono i servizi di territorio più vicini: sociali, sanitari, educativi. Anche l’accompagnare ad un servizio fa la differenza, quando si sgombri la mente da falsi pregiudizi e si voglia davvero essere d’aiuto.
Riconoscere, intravedere, ascoltare e saper leggere la difficoltà, la fragilità, la dinamica distorta o quasi patologica, la sofferenza e magari anche la vergogna altrui non è semplice, non è da tutti, ma ognuno di noi può fare qualcosa, anche se sembra infinitesimale.
Finché non acquisiremo la consapevolezza che la nascita riguarda tutti e, soprattutto, che cambia tutto (all’interno ed all’esterno di una persona, di una coppia e di una famiglia), non riusciremo mai ad essere abbastanza attenti e pronti nel prevenire atti tanto terribili. Fino a quando non smetteremo di considerare la donna una “mamma per natura”, non saremo mai abbastanza sensibili verso il cambiamento che rinascere mamma porta con se; non saremo dei buoni compagni di viaggio e di vita, ne per i grandi ne per i piccini. È responsabilità di tutti far sì che ogni famiglia ed ogni genitore accompagni a “prendersi per mano”, affinché non sia mai più un “per mano della madre”.