Metamorfosi
…sono solo.
È l’unico momento in cui sento di poter essere me stesso, anche se non so chi sono ne chi vorrei essere. Nel corso del tempo ho provato ad essere così tante persone da farmi girare la testa. Mi sono illuso così tante volte. Mi sembra un tunnel, un vortice, una montagna russa. Però da qui non cado. Sono sull’orlo ma non in bilico. Sono fermo. Le ore non passano. Mi sento al sicuro.
Lui vorrebbe che cenassi con loro a tavola, con lei e con Anna. Ma a me non interessa, ho da fare. Lo schermo mi fa compagnia. Del cellulare. Del pc. Di qualsiasi cosa che non sia una persona in carne ed ossa. Perché sono stufo. Stanco di dover apparire, di dover far finta di essere parte di qualcosa. Mi sento così diverso da loro. Così diverso da tutti.
Di giorno dormo. Mi sveglio tardi, quando loro sono a lavoro ed Anna è all’università. Vado in bagno veloce e mi metto la felpa sul pigiama. Poi mi rimetto a dormire. Al massimo fumo una sigaretta. Non sul balcone. Apro la finestra e fumo mezzo dentro e mezzo fuori. Così come sono. Mezzo dentro e mezzo fuori.
Fino a qualche mese fa mi alzavo anch’io, mi lavavo e andavo a scuola. Vedevo Marco, Ale, Silvio e gli altri. Il sabato sera facevo tardi e la domenica andavo dai nonni a pranzo. Fino a qualche mese fa. Adesso è diverso. Adesso non mi va. E non voglio che insistano. Non me frega se insistono. Io dallo psicologo non vado. Da quello strizzacervelli non ci metto piede. Ci vadano loro. Provino a capirmi. Provino a capirsi. Già che urlano e si danno colpe che nemmeno so se hanno. Si sono rivolti anche ad un’associazione per parlare di me.
Mi sono diplomato con 100 al pni. Volevo fare scienze politiche ma lui ha voluto che mi iscrivessi a ingegneria. C’ho provato e qualche volta ho anche aperto i libri. Ho provato anche a seguire le lezioni e i primi mesi ho frequentato. Ho conosciuto gente davvero brava. Gente che davvero merita di diventare ingegnere. C’ho provato a dare analisi 1. Ma poi non sono andato. Magari la prossima sessione ritento.
Lei mi lascia il cibo fuori dalla porta. Anna mi lascia qualche biglietto ogni tanto. Leggo i loro sms e i loro smiley. Lui, invece, niente. Lo sento fermarsi dietro alla porta come se volesse bussare ma poi va in sala. Non bussa. Non chiede. Non scrive. Però parla con lo strizzacervelli. Gli chiede consigli. Tanto non avrei voglia di dirgli nulla. Nemmeno a lei e ad Anna rispondo. Ho tolto anche le spunte blu.
Gioco online. Sono forte. Alcune notti gioco talmente tanto che sento gli occhi bruciare. Sono fuoco. Faccio parte di un bel gruppo. Non conosco nessuno di loro dal vivo ma non mi frega. Vado d’accordo con tutti. Ogni tanto qualcuno se ne va, arriva qualcuno di nuovo e poi qualcun altro ritorna. Nel gioco.
Lei a volte piange e lui si arrabbia. Lei a volte piange. Lui a volte parla a bassa voce; così tanto a bassa voce che non riesco a sentirlo nemmeno poggiando l’orecchio alla porta. Sento Anna ridere. Spesso viene anche Gaia e guardano la tv, sentono musica a tutto volume, scherzano. Poi viene Luca e si rincorrono per casa, si chiudono in camera ore e poi escono.
Sento lei che guarda le foto e non capisce. Racconta ad Anna di quando eravamo piccoli e facevamo i biscotti in cucina. Io con il cappello da chef e lei con il grembiulino. Lei ci puliva la bocca e ci carezzava il viso. Forse vorrebbe farlo ancora.
So che si sente in colpa e che vorrebbe tornare indietro nel tempo.
Quanto a me io vivo chiuso. Vivo in un bozzolo. Sopravvivo.
Magari domattina mi alzo mi lavo e faccio colazione con loro.
Magari domani ritento.
Questo è un semplice esercizio di empatia, un tentativo di rappresentare il pensiero fluido e rumoroso di un hikikomori. Di un hikikomori e della sua famiglia. Di lei che è la madre. Di lui che è il padre e di Anna che è la sorella. Questo ragazzo non ha nome ma può essere chiunque perché rappresenta tantissimi giovani e tantissimi neo-adulti che ad oggi, all’improvviso, “si mettono in disparte, isolandosi dal mondo”. Si chiudono in una stanza. Sotto le coperte. Al buio. Nel silenzio. Dove pensano o sperano di non essere visti. Dove sperano di non dover più rispondere alle aspettative di nessuno.
L’adulto, il parente o il genitore, per reazione, credono che sia una scelta facile, comoda, ma il punto è che nella maggior parte dei casi non è una scelta. Un po’ come cadere innamorati. È un po’ come cadere in un pozzo da cui non si è visti e non si vede fuori. Si scivola, in silenzio, in punta di piedi. In Italia si stima che gli hikikomori siano circa 100.000, prevalentemente maschi, tra i 14 e i 30 anni. C’è chi si isola pur vivendo con i propri genitori e chi si isola una volta andato a vivere da solo.
Il termine hikikomori nasce in Giappone, dove l’incidenza, altissima, sfiora il milione di casi, coinvolgendo anche persone over 40. È un fenomeno che tende a manifestarsi e dà le prime avvisaglie durante l’adolescenza, con un rischio di cronicizzazione importante che può durare anche tutta la vita.
In Italia l’attenzione a questo fenomeno sta aumentando esponenzialmente e la pandemia ha spianato la strada anche a nuove altre forme di distanziamento dal mondo reale. Dal punto di vista clinico viene considerato un disagio adattivo sociale e riguarda tutti i paesi economicamente sviluppati del mondo. In parole povere, il vivere in società ad alcuni causa talmente tanto disagio al punto da minare la capacità che l’individuo ha di adattarsi al contesto. Le cause possono essere molteplici e spesso si sovrappongono tra loro. Vi sono cause caratteriali, l’hikikomori è spesso molto intelligente ed anche molto sensibile ed inibito socialmente, manifestando difficoltà nell’instaurare relazioni amicali e sentimentali soddisfacenti e durature così come nell’affrontare e reagire alle sfide della vita. A livello famigliare gli studi rilevano una maggior incidenza del fenomeno tra giovani/neo-adulti o adulti che abbiano avuto un eccessivo attaccamento o dipendenza dalla figura materna ed un padre emotivamente assente. Va tenuto presente che a fronte di una grande fatica che i genitori od i parenti o gli amici fanno nel relazionarsi con l’hikikomori, ci si scontra con un giovane/adulto che rifiuta qualsiasi tipo di aiuto. Il rifiuto della scuola è spesso il primo campanello di allarme e molte volte dietro all’isolamento si nasconde anche una vittima di bullismo. Vi sono poi delle cause che riguardano specificamente la società in cui viviamo, fortemente orientata alla competizione ed alla realizzazione, da cui l’hikikomori cerca con tutte le sue forze di fuggire. Sovente la chiusura porta a sviluppare forme di dipendenza come, ad esempio, la dipendenza da internet o la dipendenza dal cibo.
Molti disagi giovanili paiono simili o sfiorano l’hikikomori ed il dovere degli adulti è di informarsi, conoscere, sapere e stare al passo con i tempi, con le mode e con i linguaggi dei giovani.
I giovani, in particolare gli adolescenti, vedono ed interpretano le situazioni della vita in modo profondamente differente rispetto agli adulti, poiché a livello biologico e neurologico non sono totalmente maturi. Quindi, sfide, difficoltà ed emozioni che agli adulti appaiono semplici, banali o normali, in realtà un adolescente o un neo adulto (con un’impronta caratteriale ed una storia famigliare e sociale già sintomatica come detto) le vive e le percepisce in modo amplificato, al punto da sembrare quasi insormontabili.
Mettersi da parte diventa mettersi all’angolo, tra due muri che rischiano di stringersi sempre di più, in una spirale che cambia nel profondo e cambia chi sta intorno. La personalità individuale è un continuum di cambiamenti, di passi in avanti ed indietro, di cose capite, immaginate, desiderate, amate e odiate.
Per i genitori, i parenti, gli amici e i professionisti del sociale l’hikikomori rappresenta una difficile lotta con se stessi. Il lavoro sociale e la moltitudine di persone per le quali ci si trova a lavorare costringono a guardare dentro di noi, per entrare in contatto con l’altro. Bisogna essere pronti alla metamorfosi. Soprattutto, bisogna aiutare la farfalla che si è nascosta nel bozzolo a riconoscersi ed a spiccare il volo.
Avendo cura di non affrettare i passi, poiché qualsiasi conquista, nascita o rinascita è una spinta che nasce da dentro verso l’esterno e mai viceversa.